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Il trionfo della DC e il dualismo Abbro - Romano



Nel 1943 Cava fu teatro di una violenta battaglia tra le truppe tedesche e quelle anglo-americane. Circa seicento cavesi persero la vita nelle azioni di rappresaglia dei soldati di Hitler o durante i bombardamenti. Gli alleati sbarcarono a Salerno la notte dell’8 settembre, poche ore dopo la notizia dell’armistizio, diffusa dalla radio, e arrivarono in piazza San Francesco all’alba del 9 settembre. La reazione dei tedeschi fu durissima: occuparono Corso Umberto con i carri armati e piazzarono le bocche da fuoco dell’artiglieria pesante nei villaggi. La loro resistenza durò venti giorni. Gli anglo-americani, aiutati da numerosi giovani cavesi, dovettero conquistare la città metro per metro.
L’8 settembre ’43
Riccardo Romano ha un ricordo personalissimo di quelle giornate drammatiche. A Cava, la sera dell’8 settembre 1943, arrivò una camionetta di militari inglesi, diretta da un colonnello. Ad aspettarli in piazza San Francesco c’era un giovane cavese. Il colonnello lo fece salire sulla camionetta e parlarono a lungo in francese. Il giovane gli disse che potevano occupare liberamente la città, perché i tedeschi erano andati via. Gli alleati potevano avanzare verso Napoli, non c’erano problemi. Quel giovane coraggioso era proprio Riccardo Romano, e aveva 21 anni. Ricorda ancora quella conversazione. Gli è rimasta stampata nella mente. «Il colonnello - dice - rispose che non era possibile occupare Cava, perché dovevano prima rafforzare il fronte sul mare e aspettare i rifornimenti. Mi diede appuntamento per il mattino successivo. L’indomani, quando tornai in piazza San Francesco, trovai i tedeschi che avevano occupato la zona e avevano piazzato alcuni cannoni nei punti strategici. Cominciarono così i giorni del combattimento, che durarono fino al 29 settembre».
La resistenza disorganizzata
A Cava non ci fu una vera e propria resistenza contro i tedeschi. «Non eravamo organizzati - spiega Romano. - La cosa fu così improvvisa che non si pensò nemmeno di incontrarci e di organizzare una lotta. Non avevamo armi, né esperienza, né un programma. Perciò ci furono solo episodi isolati».
I giorni terribili dei bombardamenti
Furono giorni terribili per la popolazione, che aveva trovato rifugio nei casolari di campagna o all’Abbazia benedettina, dove furono ospitati più di seimila cavesi. «Ricordo ancora i bombardamenti e i camion degli americani che passavano giorno e notte per le strade polverose di Cava», dice Amalia Coppola Paolillo, che allora era una ragazza di 15 anni, con i lunghi capelli corvini tirati all’indietro. Quando il 29 settembre i tedeschi abbandonarono la città, facendo saltare in aria il ponte di San Francesco e il ponte sulla ferrovia, all’altezza di villa Alba, la vita del borgo lentamente riprese.
Il fronte di guerra si spostò a Cassino, dove rimase fermo per alcuni mesi. La tempesta era passata, ma si stentava a tornare alla normalità. «C’era una grande confusione in quel periodo - racconta Amalia Coppola - Circolavano per la città soldati americani, neozelandesi, africani. Masse di profughi si spostavano dal Nord verso il Sud e viceversa. Il Circolo Sociale, tempio laico della borghesia cavese, fu “profanato” dagli americani, che organizzarono balli e fraternizzarono con il popolo. I soldati americani avevano portato da casa dischi di jazz. C’era perfino chi ballava il boogie woogie in mezzo alla strada. La mia famiglia non aveva problemi economici, ma in giro c’era tanta miseria: molti vivevano mangiando cachi e pane nero. Casa nostra era aperta a tutti. C’era sempre un piatto di minestra per chi ne aveva bisogno».
Dal C.L.N. rinasce la politica
La vita politica cittadina ricominciò con la formazione della sezione locale del Comitato di liberazione (Cln). Il padre di Amalia, Mario Coppola, proveniente dalle fila di Giustizia e Libertà, militava allora nel partito d’Azione. Poi, dopo lo scioglimento del partito, confluì nel Pri di Ugo La Malfa, insieme all’avvocato Ferruccio Falcone. Nato nel 1889, Mario Coppola aveva appreso il verbo mazziniano nel collegio “Cicognini” di Prato, lo stesso dove furono educati Gabriele D’Annunzio e Curzio Malaparte. Fu uno dei fondatori della Giovine Italia a Cava.
Nel clima assolutamente monarchico del tempo, le sue idee repubblicane erano considerate rivoluzionarie. «Fu tanto fedele al suo ideale di giustizia sociale, che regalò agli operai la fabbrica tessile che avevamo a Molina di Vietri», ricorda Amalia. Mario Coppola, tra l’altro, era un “33”, il massimo grado della massoneria campana. Nelle logge dei primi decenni del secolo, i massoni prepararono culturalmente l’avvento della Repubblica. Durante il fascismo, per queste sue idee, Coppola fu perseguitato dalle autorità locali. Quando arrivava a Cava o a Salerno qualche pezzo grosso del Regime, le forze dell’ordine rinchiudevano in carcere tutti gli antifascisti. E tra questi c’era pure lui. Sposato con una donna di origine tedesca, Ines Von Schoeder, dopo la caduta del fascismo Coppola entrò a far parte del comitato provinciale per l’epurazione. «Mio padre però non aveva un carattere persecutorio, non era vendicativo. Per questo perdonò i fascisti cavesi», racconta Amalia. E così, anche chi aveva rivestito la carica di segretario federale del Fascio, come Santoro, Enzo Malinconico e Antonio Lupi, non ebbe alcun problema con la giustizia. Nel 1954, anzi, uno di loro, Antonio Lupi, fu candidato dal Msi alle elezioni provinciali, ma non riuscì ad essere eletto.
La sezione del Partito Comunista nel 1943 a Cava non esisteva. C’era solo un gruppo universitario comunista, del quale faceva parte anche il giovane Romano: «Avevamo creato una sezione universitaria comunista. Ne facevano parte Gino Cataldo, Erasmo Barbarulo, Giovanni Martoccia, Salvatore Saturnino. Il primo volantino del Pci cavese lo scrissi proprio io, nel 1943: il testo giustificava il comunismo sulla base dell’ideologia di Sant’Ambrogio. Fui anche convocato dal Field Security Office, la polizia alleata, perché distribuivamo materiale di propaganda comunista. Volevano sapere chi eravamo e che cosa facevamo».
Al municipio, che era allora la sede del Partito d’Azione, i comunisti cavesi costituirono un fronte giovanile di azione repubblicana, con socialisti, azionisti e repubblicani. «Eravamo un gruppo di giovani che si batté poi per la Repubblica e per la Costituente - dice il padre de]la sinistra cavese - L’obiettivo della creazione di uno Stato nuovo era comune. Fu una stagione esaltante perché si viveva di ideali. Discutevamo del futuro dell’ltalia, di quale paese avremmo creato».
Nel clima febbrile della ricostruzione e del ritorno alla libertà, un gruppo di professionisti, di ferrovieri e di operai rifondò la sezione socialista cittadina, intitolata a Carlo Pisacane. Nel 1946 fu eletto segretario del Psi Renato Paolillo, il futuro marito di Amalia. C’erano con lui l’avvocato Giovanni Pagliara, il professore Enrico Albano, l’avvocato Erasmo Barbarulo, l’avvocato Pasquale Panza, il professore Gian Battista Martoccia. Ma l’anno dopo, con la scissione di Palazzo Barberini e la fondazione del Psdi da parte di Saragat, i Paolillo abbandonarono il Psi aderendo al nuovo partito, perché contrari al patto di unità d’azione con il Pci.
La sezione Gramsci del Pci fu fondata dal gruppo universitario comunista. «Avevamo una sede in Corso Umberto che io avevo preso in affitto prima ancora del 25 luglio, mascherandola come studio professionale - ricorda Romano - Poi la sezione fu colpita dagli obici della marina inglese, dopo lo sbarco. Noi la rinnovammo, la ristrutturammo. Il primo segretario del Pci fu Gino Cataldo. Le prime battaglie le facevamo con l’altoparlante, sul corso, contro i rappresentanti dell’Uomo Qualunque che stavano in una terrazza di fronte, vicino alla farmacia Carleo». Molti degli esponenti dell’Uomo Qualunque passarono poi alla Dc, quando ci fu la rottura dell’unità nazionale e i socialisti e i comunisti furono cacciati dal governo. «La Dc era allora un partito arretrato e conservatore - dice il vecchio leader comunista. - tanto è vero che a Cava non abbiamo avuto una partecipazione del Pci al governo della città, tranne che nel primo periodo dei comitati di liberazione, in cui si nominavano direttamente gli amministratori».


1946: lotta per la Repubblica
Ma il 1946 fu anche l’anno della battaglia per la Repubblica. La sostenevano gli azionisti, i repubblicani, i socialisti e i comunisti. «Andavamo ad affiggere i manifesti per la repubblica e a mettere gli striscioni tra un balcone e l’altro del corso, fino alle due di notte», ricorda Amalia Coppola. Gli avversari si chiamavano Eugenio Abbro, Mario Pisapia, Renato Di Mauro, Franco Gravagnuolo, il barone Luigi Formosa, i Lamberti e i Baldi di S. Lucia. I monarchici erano fortissimi a Cava, come in tutto il Sud Italia.
Anche l’avvocato Peppino Della Monica, classe 1922, si schierò per la Repubblica. «Il maresciallo De Cristofaro - ricorda - mi convocò in caserma, insieme a Gaetano Lambiase, Mario Coppola e Riccardo Romano. Fummo severamente ammoniti perché sostenevamo la campagna per la Repubblica in maniera troppo tumultuosa e aggressiva». Fu in quel periodo che il giovane avvocato, alto un metro e ottantacinque, con un fisico da giocatore di rugby e due occhi azzurri, strinse amicizia con il leader dei comunisti cavesi. «Organizzavamo comizi in tutta la città, dalla mattina fino a sera tardi, con carrettini, camioncini, microfoni improvvisati collegati alle batterie delle automobili».
“Viva il Reo”
Ricorda Riccardo Romano: « La lotta per la Repubblica fu particolarmente aspra. Ci furono anche pericoli di scontro. Le manifestazioni repubblicane furono abbastanza imponenti. Feci il rappresentante di lista a San Pietro, che era una delle zone più conservatrici di Cava. Il presidente di seggio era l’avvocato Goffredo Sorrentino, democristiano, il quale durante lo scrutinio ogni tanto mi guardava, preannunciando un voto per la Repubblica che fu in estrema minoranza in quel seggio. Durante la notte antecedente al referendum andammo in giro con secchi di calce. I monarchici scrivevano “Viva il re” e noi aggiungevamo una “o”, cioè “Viva il reo”. Scrivevamo per terra, per non sporcare i muri. Ci ritrovammo alle 6 del mattino che nessuno di noi aveva dormito e dovemmo smettere perché non era più possibile continuare. E ci rendemmo conto che non si capiva più niente di quello che avevamo scritto. Gli slogan lungo il corso di Cava erano sovrapposti. Gli avversari della Repubblica erano Abbro, i mediatori di bestiame, alcuni commercianti. Insomma, tutte le forze della conservazione che allora costituivano la classe dirigente».
Una valanga di voti alla DC
Un grosso risultato, al di là delle aspettative, lo ebbe anche la Dc. Ricorda Amalia Coppola: «Seguii le elezioni alla radio, insieme a tanta altra gente. Il voto era doppio: per la Monarchia o la Repubblica e per la Costituente. I voti della Dc furono una valanga: una vera sorpresa per noi. Comunque, dopo la vittoria della Repubblica, mio padre organizzò cortei e fuochi d’artificio. Al ballo in piazza indossai un vestito rosso fiamma. Danzai insieme agli operai e alla gente del popolo: allora era considerato quasi uno scandalo».
La condizione degli operai cavesi
La condizione degli operai cavesi nel dopoguerra era disastrosa. Riccardo Romano allora era segretario della Camera del lavoro. E fece venire a Cava Pesenti, che era ministro comunista delle finanze. «C’era la crisi della Manifattura tabacchi - racconta Romano - Riuscimmo a far ottenere agli operai una razione mensile di sigari che poi essi stessi vendevano per integrare la bassa retribuzione».
C’era molto lavoro nero in provincia di Salerno e gli operai cavesi che andavano a lavorare nelle altre città erano guardati con sospetto, perché spesso erano crumiri. «Si trattava di piccoli contadini che andavano a lavorare come muratori per integrare l’utile della terra - spiega l’ex senatore comunista - Per questo non partecipavano agli scioperi». Era una tradizione della vita sociale di Cava che l’uomo andasse a lavorare fuori come muratore o come manovale. «Le donne, invece, lavoravano prima al telaio, alla fine dell’Ottocento, e poi nei campi di tabacco per integrare il reddito familiare. Quelli che vivevano meglio erano coloro che avevano questa forma di integrazione grazie al lavoro della donna». Anche per questo Cava negli anni ‘50 era più ricca delle altre città della provincia. «La nostra città è stata sempre privilegiata rispetto alle altre, perché ha pesato molto il lavoro delle donne. Le industrie erano industrie femminili: la Manifattura e l’Agenzia Tabacchi, la Manifattura tessile di Passiano, la Manifattura Bisogno. Gruppi operai maschili c’erano solo al pastificio Ferro e alla tipografia Di Mauro. La maggior parte della base operaia era formata da donne. Gli uomini, se non andavano a lavorare fuori, o erano artigiani oppure piccoli commercianti» Questa particolare composizione del ceto operaio determinava anche molti consensi al Pci da parte delle donne. «Tanto è vero - dice Romano - che abbiamo eletto diverse donne al consiglio comunale».
C’era però un rischio: quello di una frattura tra le donne operaie comuniste e i contadini-muratori di destra o democristiani. Ma il Pci cercò di evitarla. «Piano piano lavorammo sugli edili e riuscimmo a creare un gruppo omogeneo e responsabile - dice Romano - ma ci vollero molti anni per portare il settore edile alla coscienza sindacale di classe. Gli operai edili erano assunti direttamente dal padrone e non venivano pagati con le paghe sindacali».
Ricordo del sindaco Avigliano
«La prima regola per la classe dirigente del dopoguerra era il rigore morale». Peppino Della Monica ha un ricordo bellissimo della prima amministrazione della città, guidata dal sindaco Gaetano Avigliano, democristiano. «A quei tempi non c’era clientelismo, né tangenti», dice. I nomi di quella coalizione del 1946 tra Dc, Pri, Psi, Lista Combattenti e Uomo Qualunque, li ha come scolpiti nella mente: i democristiani Eugenio Gravagnuolo, vicesindaco, Mario Prisco (professore), Maria Casaburi (professoressa), Federico De Filippis (dottore), Benedetto Accarino (avvocato), il “combattente” Salvatore Apicella (capitano dell’Esercito), il repubblicano Francesco Rossi (ragioniere), i socialisti Antonio Biondi (dipendente delle Ferrovie) e Angelo Vella (oggi alto magistrato).
Nelle elezioni amministrative del 1947 il Pci prese solo 800 voti. Furono eletti consiglieri comunali Riccardo Romano e due operaie della Manifattura Tabacchi, Maria Benincasa e Filomena Placido. «Allora noi avevamo l’obiettivo di conquistare le fabbriche di Cava - ricorda il leader del Pci - e difatti avevamo iscritti alla Manifattura e allo stabilimento tessile di Siani a Passiano, che negli anni successivi ci diede un altro consigliere, Maria Matonti, una bravissima compagna, energica e combattiva».
Della Monica si candidò per il Pri, risultò eletto e divenne assessore all’anagrafe e allo stato civile della giunta Avigliano. «Ho una memoria dolcissima di Avigliano - dice - per il tatto, il garbo, la pacatezza dei modi, la sobrietà dei costumi, l’intelligenza. E’ stato un grande sindaco». Un episodio in particolare Della Monica ricorda, per sottolineare il rigore morale di quegli anni. «Il comune fu invitato a Roma, a partecipare alle onoranze tributate a Mamma Lucia dall’Associazione delle vittime della guerra. Fui delegato io ad accompagnarla e a rappresentare il Municipio. Ero lieto di essere stato scelto, ma purtroppo ero senza soldi e non sapevo come fare. Fui chiamato all’economato dall’impiegato Pierino Durante che mi diede 5 mila lire. Poi fui convocato da Eugenio Gravagnuolo, assessore alle finanze: “Mi raccomando - disse questo è un fondo solo per le spese necessarie. Questi soldi si chiamano ritorno”. Quando tornai, riportai indietro 4.720 lire. Altri tempi, purtroppo. Allora la politica era una gestione sentimentale della cosa pubblica, lontana dagli intrallazzi e dagli interessi di parte».


L’arrivo di Abbro…
In quegli anni il Pci aveva ottimi rapporti sia con i socialisti (il preside Grimaldi, Gaetano Panza, Alfonso Rispoli, l’ingegnere Accarino, Gaetano Lambiase), sia con i repubblicani, che però facevano parte dell’amministrazione (Peppino Della Monica, il ragioniere Rossi, Scandone, Mario Coppola). L’avversario comune era la Dc. «La Democrazia cristiana - dice Romano - quando si costituì come partito, era formata da un gruppo di vecchi galantuomini che però si scontrarono subito con le forze di nuova immissione che erano reazionarie. I primissimi democristiani furono l’avvocato Santacroce, Petrone e il professore Raffaele Baldi, tutti e tre antifascisti. Però furono subito fatti fuori dal gruppo dell’Uomo Qualunque, che rovesciò questo nucleo antifascista e portò la Dc su posizioni conservatrici. Avigliano faceva parte di questo gruppo, cioè dei vecchi fascisti che occuparono la Dc. Era un uomo onesto, corretto nei rapporti politici, ma politicamente molto arretrato, conservatore». Questo gruppo piuttosto moderato fu sopraffatto in seguito dal gruppo monarchico di Abbro. «Il nuovo leader della Dc distrusse completamente il vecchio partito democristiano, impose una linea populista alla Dc e riuscì a conquistare la città con l’appoggio di quelli che si erano arricchiti con la guerra». Ma intanto anche il Pci si era rafforzato.
Della Monica restò assessore fino alla metà degli anni Cinquanta, quando cominciò a brillare l’astro nascente di Eugenio Abbro. Il professore di educazione fisica di fede monarchica, dopo aver vinto le elezioni, riuscì a conquistare la Dc e a diventarne il leader. «Quando si ebbe la contaminazione tra Dc e monarchici - dice Della Monica - il partito scudocrociato cambiò profondamente. Qualche democristiano si oppose, come Daniele Caiazza. Ma era troppo solo. La contaminazione peggiorò la Dc. Quando arrivò Abbro, finì il partito di Avigliano che era rispettabile, non dava adito a critiche negative sotto il profilo morale ed era apprezzato da tutti per la sua rettitudine amministrativa e per l’amore nelle cose cittadine». Della Monica non partecipò alle amministrazioni monarchiche guidate dal barone Formosa e poi da Abbro. Né entrò nelle giunte a monocolore democristiano, quando il passaggio di Abbro nella Dc fu consumato. «Ho collaborato solo con la Dc buona, quella di Avigliano. Con la Dc di dopo non ho mai voluto averci a che fare». E infatti, dopo la lunga parentesi in giunta, 1947-1954, il Pri passò all’opposizione, insieme al Psi del preside Grimaldi e al Pci di Riccardo Romano.
1954: un voto che fece scalpore
Nel 1954, quando Abbro si dimise dal consiglio provinciale per fare il sindaco di Cava al posto di Formosa, Riccardo Romano fu candidato dalla sinistra unita (Pci, Psi, Pri) alle elezioni provinciali e vinse il collegio con il 50,7 per cento dei voti. «Fu una vittoria clamorosa, in pieno scelbismo, contrastata violentemente dalla Dc, che diceva che io avevo le mani sporche di sangue perché ero comunista - ricorda Romano - La nostra vittoria ebbe rilevanza nazionale. In pieno scelbismo, in una città meridionale, riuscire a sconfiggere insieme il candidato della Dc, Avigliano, e quello dei fascisti, il professore Lupi, fu clamoroso. Difatti l’Unità pubblicò la notizia in prima pagina. Giorgio Amendola esaltò in cronaca meridionale la vittoria unitaria. Questa vittoria fu possibile anche perché io nel 1952 ero stato cacciato dalla scuola di Agropoli dopo essermi scontrato con un prete. Costui fece intervenire il Vaticano e il Ministero dell’interno per farmi trasferire a Cava, perché ero comunista e insegnavo con criteri democratici. Andai a insegnare alla scuola media a piazza San Francesco».
L’affermazione della sinistra fu determinata anche dal voto contadino. Un anno prima, una grave malattia, la peronospera, aveva distrutto tutto il tabacco. I contadini erano disperati, perché avevano perso tutto il raccolto di un anno e la situazione economica era tragica. Romano organizzò i contadini, operando così quella fusione tra lavoro contadino e lavoro operaio che fino ad allora era stata impossibile e superando la frattura che c’era.
Cominciò a crescere il Pci
La vittoria del ‘54 segnò l’inizio dello sviluppo del Pci. «Nell’ambito del partito comunista era avvenuto un ricambio. Parte del vecchio gruppo universitario gradualmente passò ai socialdemocratici e io rimasi solo a condurre la lotta politica. La base del partito era costituita da povera gente, non il sottoproletariato, ma il reale proletariato cavese. Avevamo dieci sezioni del partito a Cava. Il mio slogan era “Ogni campanile una sezione del Pci”. Avevamo sezioni a Rotolo, Marini, Licurti, Annunziata, Dupino, S. Cesareo, Passiano, S.Lucia, Pregiato, S. Arcangelo e Cava centro. C’era anche qualche contadino. Ma i contadini davano la loro partecipazione con le lotte, non con l’adesione. Le sezioni erano una specie di circoli operai che organizzavano riunioni. Dopo il ‘54 ci fu l’esplosione. Arrivarono consensi anche dal ceto medio perché si era formata la coscienza del partito nuovo, della via nazionale al socialismo. Però la borghesia non aderiva. Quelli del ceto medio non si scoprivano, ma votavano per noi».
La partecipazione ai comizi del Pci in piazza Mazzini, in piazza Duomo, nelle frazioni, era di massa. «I nostri comizi - ricorda Romano - erano sempre più frequenti, perché erano basati sulla necessità di uno sviluppo democratico locale e nazionale. Erano fortemente ancorati alla realtà locale. Erano una specie di scuola di partito fatta all’aperto nel confronto con le masse». I segretari del partito furono allora Arturo Di Gilio e Vincenzo Vitale. Nel gruppo dirigente c’erano Egidio Muscariello, Renato Adinolfi, Raffaele Palazzo a S. Arcangelo, Raffaele Lambiase e Lamberti a S. Lucia. «Non c’erano molti giovani - sottolinea l’ex senatore comunista - perché avevano la preoccupazione della raccomandazione per il posto di lavoro. I comunisti erano discriminati. E quindi il peso dell’organizzazione era tutto sulle mie spalle. Non passava un giorno che io non avessi una riunione in una casa di campagna per spiegare i nostri obiettivi, che cosa volevamo fare. La base operaia allora era molto interessata alla politica, non come oggi».
Il problema della disoccupazione
Sul finire degli anni ‘50 la disoccupazione era un problema molto grave a Cava. Se ne occupò la Camera del lavoro. Fu un periodo di grossi conflitti sociali. «Una volta i disoccupati comunisti furono anche aggrediti dalla celere di Scelba che con le camionette inseguì i manifestanti che chiedevano il lavoro anche sotto i portici. Questo scontro con la celere fece impressione anche sui commercianti di Cava, che condannarono l’operato della polizia», ricorda Riccardo. Un altro scontro violento con la polizia ci fu in occasione dello sciopero del latte. Le donne contadine andarono a rovesciare le secchie del latte dei crumiri, a S. Arcangelo specialmente. «Erano le donne a muoversi, lasciando da parte gli uomini, perché c’era la convinzione che loro non potessero essere arrestate. Quindi le donne erano le più attive nella lotta».
Il Pci di Cava diventò il più forte della provincia. «Non fu merito solo della mia azione intensa e permanente, ma anche della nostra strategia. Indicammo ai cavesi la via giusta, puntando su obiettivi concreti: il prezzo del latte, il rispetto della legge sui fitti dei fondi rustici, che ha consentito a molti contadini di diventare proprietari della terra che lavoravano, le lotte per l’occupazione, la presenza organica nelle frazioni. La nostra forza è stata quella di proporre obiettivi alternativi concreti rispetto alla politica della Dc». Ha contato anche l’appoggio della classe media. «Il benessere degli operai era anche il benessere dei commercianti e della classe media - spiega il vecchio leader. - Se gli operai trovavano un lavoro nelle fabbriche, anche i commercianti guadagnavano di più. Perciò tutte le lotte democratiche nella campagne e nelle fabbriche trovarono come alleati naturali i commercianti che vedevano nelle classi proletarie innanzitutto dei consumatori. L’ambiente sociale di Cava era particolarmente adatto per realizzare il collegamento tra ceti medi e lavoratori».


Il trionfo della classe intermedia
Il periodo aureo del Circolo Sociale si stava esaurendo. Era finita un’epoca, l’epoca dei balli della Taverna Verde, dei suicidi per lavare l’onta della non ammissione al Circolo, dei titoli nobiliari. Si stava affermando a Cava una nuova borghesia, che non si riconosceva più nel Circolo Sociale.
Fu uno scandalo ad accelerare la fine del Circolo. In una sola serata, uno dei soci perse ai tavoli da gioco la somma stratosferica di cinquanta milioni di lire. Era il 1960. Il Club sportivo Tennis, dotato di due campi di gioco e di un bungalow che fungeva da spogliatoio, alla fine degli anni ‘50 era stato trasformato in circolo dall’ingegnere Casillo, che costruì lo stabile attuale. Tra il Sociale e il Tennis nacque subito una forte competizione. Competizione che vide protagonisti da una parte lo stesso ingegnere Casillo e dall’altra l’ingegnere Gaetano Accarino, del Sociale. Ma il vecchio Circolo era ormai in declino. Il colpo di grazia glielo diede proprio lo scandalo suscitato da quella grossa perdita al gioco che coinvolse un po’ tutto il sodalizio. L’unica soluzione per uscirne era chiudere il Sociale e vendere la sede di Corso Umberto. Con la mediazione di Mario Amabile (socio del Sociale, proprietario del Credito Commerciale Tirreno), tutti gli iscritti al Sociale, con la sola eccezione del professore Giovanni Violante, si convinsero ad accettare la fusione con il Tennis Club. La sede di Corso Umberto fu venduta, dall’ingegnere Ninì Capano, alla Banca Cavese e di Maiori, successivamente acquistata dal Monte dei Paschi di Siena.
Un nuovo circolo esclusivo
Così il Tennis Club, che era presieduto dal marchese Rende, divenne il nuovo circolo esclusivo della città, aprendosi però anche alle classi sociali emergenti. La nobiltà e la borghesia romana, napoletana e salernitana vennero in massa a Cava, a giocare a chemin e a baccarà. «Sotto la presidenza dell’avvocato Mario Parrilli il Tennis raggiunse il suo massimo splendore», dice Amalia Coppola, che allora era la madrina del Club. Furono costruiti anche la piscina olimpionica e un altro campo da tennis. Commettendo però un grande errore. Per edificare la piscina si eliminò uno dei due campi da tennis esistenti, omologati per i tornei internazionali. Cava perse all’improvviso la possibilità di far parte del circuito nazionale e di vedere all’opera campioni come Pietrangeli ed altri: il campetto aggiunto nella villa comunale era adatto più agli allenamenti che ai tornei.
Borghesia cavese illuminata
La figura di Riccardo Romano affascinò anche l’alta borghesia. «Vedevano in noi la contrapposizione al plebeismo di Abbro - sostiene Romano. - Egli ha puntato sui ricchi strati commerciali e di intermediazione, i contadini ricchi, i commercianti più retrivi, i mediatori di bestiame. Gente come Mario Pisapia e Renato Di Marino. Il suo era l’esercito della Santa Fede. La borghesia cavese non si vedeva rappresentata da lui». Per questo, nel segreto dell’urna, metteva la croce sulla falce e martello. «Io ho sempre esaltato l’azione politico-sociale della borghesia cavese che sin dall’Ottocento è stata la più aperta rispetto ai problemi della città. Cava è l’unica città della provincia che avesse un ospedale, una biblioteca, una casa di riposo per gli anziani, case di accoglienza per gli orfani, il teatro comunale. Basti pensare che Leopoldo Siani, che aveva costruito l’industria tessile a Passiano, aveva aperto anche l’asilo per i figli delle operaie, al fianco della fabbrica, con una mentalità da industriale inglese e non da bovaro meridionale italiano. La borghesia aveva fatto di Cava una città diversa dalle altre. A me sembrava che il Pci dovesse essere il vero continuatore di questa azione illuministica che si era realizzata a Cava. Da una parte c’era la politica plebea di Abbro: la gente era legata a lui sulla base di favori e di clientele. Dall’altra c’eravamo noi, che abbiamo rivalutato il proletariato e abbiamo saldato le lotte dei contadini e degli operai con le rivendicazioni della borghesia illuminata».
Si avvicinarono al Pci il dottore Mario Esposito, l’avvocato Peppino Della Monica, Giannino Violante, professore di ginnastica, Mario Pisapia, ex monarchico, alcuni commercianti, l’ avvocato Pagliara, il marchese Andrea Genoino. Una grande invenzione politica di Romano furono gli indipendenti. «Il Pci aveva un seguito enorme nel proletariato, ma pochi elementi capaci di essere rappresentativi nelle istituzioni - spiega il vecchio leader - Quindi aveva un bisogno disperato di trovare chi rappresentasse questo proletariato. L’allargamento della base sociale fu quasi una necessità di sopravvivenza del Pci. Io poi non ero un uomo di partito chiuso, e difatti non sono mai stato un funzionario».
Nel 1962 ci fu l’esperimento della lista di concentrazione democratica, che aveva come simbolo due mani unite. «Però - ricorda Romano - i democristiani ci contestarono questo simbolo che era stato presentato non so da chi a livello nazionale e lo dovemmo cambiare all’ultimo momento con una ruota dentata». La lista unitaria della sinistra ebbe un grande successo e prese 15 consiglieri comunali. «Facemmo eleggere non solo comunisti precisa l’ex senatore - Non eravamo chiusi o settari. I candidati erano in ordine alfabetico, anche io. Riuscimmo ad accontentare sia i socialisti che i repubblicani e gli indipendenti, senza settarismi e con il pieno convincimento della necessità di un’azione unitaria per lo sviluppo della città e per contrastare la politica di Abbro».
Al Senato il voto era per “Riccarduccio”
Arriviamo al 1963. Candidato dal Pri alla Camera dei deputati, Peppino Della Monica prese più di mille voti. Girando per le case dei cavesi poté toccare con mano lo “strano amore” della borghesia per Riccardo Romano. «Quando invitavo le famiglie borghesi di Cava a votarmi alla Camera, si scusavano e dicevano che dovevano votare per il candidato liberale che li rappresentava meglio di me. Quando però chiedevo se avrebbero votato anche al Senato per il candidato liberale, dicevano che no, non era possibile, il loro voto era per Riccarduccio».
Ma chi era Riccardo Romano? Il ritratto di Della Monica è preciso: «Era un combattente purissimo, un gladiatore della politica, che non esitava ad esporsi per tutelare la classe operaia. E aveva la splendida qualità del disinteresse. Mio zio a novanta anni veniva da Napoli a Cava, quando c’erano le elezioni, solo per votare per lui. Politicamente ispirava molta simpatia anche alla borghesia. La borghesia alle elezioni politiche preferiva votare contro se stessa, per il proletariato, perché sapeva che Romano era un uomo giusto, che pensava prima di tutto al bene della comunità. La sua bella parola conquistava la folla. No, non era un oratore, non aveva un’oratoria aulica. Ma i suoi discorsi stringati erano piacevolissimi».
Romano veniva dalle fila del Seminario di Cava. Per entrarvi aveva avuto l’appoggio del Vescovo. «Ecco perché la Chiesa gridava al tradimento. Non poteva sopportare l’affronto. Ma quanto più la Chiesa attaccava Romano, tanto più la borghesia lo aveva in simpatia. Riccardo era invitato anche alle manifestazioni di una certa mondanità», dice Della Monica.
E così nel 1963 Riccardo Romano diventa senatore. Sarà riconfermato in questa carica fino al 1972.
Una donna in Consiglio Comunale
Alle amministrative del 1966 il simbolo del Pri non si presentò. «Il Pri non poteva svanire nel nulla. Perciò accettai di candidarmi nella Dc come indipendente, dopo che la segreteria provinciale del partito mi diede il suo placet. Ma subito dopo le elezioni, alla prima seduta del consiglio comunale feci dichiarazione di appartenenza al gruppo repubblicano», ricorda Amalia Coppola. La sua candidatura riscosse un successo clamoroso: quasi mille e trecento voti. Ma provocò anche molte polemiche. Durante la campagna elettorale, Peppino Della Monica, intervenendo a un comizio della Dc al cinema Metropol, apostrofò pesantemente Amalia Coppola, accusandola di aver tradito la memoria del padre. «Avemmo un alterco - racconta la Coppola. - D’altronde, ho dimostrato con i fatti di essere rimasta fedele ai miei ideali». Infatti, negli anni successivi, Amalia, insieme a Mario Scotto, rifondò la sezione del Pri. Allora la base del partito era costituita da professionisti e esponenti del ceto medio, come Emilio Scandone, il ragioniere Rossi, il professore Vitale, Antonio Avella, il sarto Argentino.
Nel ‘68 la base del partito si arricchì. I figli di coloro che avevano sostenuto dall’esterno il Pci entrarono nel partito. «Per me fu un elemento di liberazione - dice Romano - Non ce la facevo più fisicamente, avvertivo il bisogno del rinnovamento». Entrarono allora Achille Mughini e, più tardi, Raffaele Fiorillo.

“Così Abbro ha distrutto la Dc”
Il giudizio di Romano sul suo avversario storico è durissimo. «Abbro ha distrutto la Dc che nel dopoguerra era un partito democratico e ha creato un partito che non poteva fare a meno di lui, facendo allontanare uno dopo l’altro i vecchi galantuomini. Gli Avigliano e gli altri non potevano competere con lui sul terreno del plebeismo».
Eppure Abbro si è sempre vantato di aver fatto di Cava una Piccola Svizzera. Anche questa affermazione è contestata da Romano: «La nostra città - dice - non è diventata quella che è per opera di Abbro. E’ l’azione della borghesia illuminata dell’Ottocento che l’ha fatta sviluppare». E le case popolari, le strutture sportive, le opere pubbliche costruite sotto il sindacato di Abbro? «C’era già una base fortissima - spiega il vecchio leader. - Basti pensare che l’ente di assistenza era il più ricco della provincia. Oltretutto lui doveva far fronte anche alla nostra azione politica, che non gli dava tregua. Comunque, se fosse stato per Abbro, avremmo avuto 90 mila abitanti, come prevedeva il piano regolatore. Lui è stato molto aperto nei confronti degli abusi edilizi. Quando ha potuto favorire gli speculatori, l’ha fatto. A via Vittorio Veneto, per esempio, la strada è così stretta e non ha marciapiedi, perché lui ha consentito l’occupazione del suolo fin dove era possibile».
Secondo Romano Cava si sarebbe salvata dallo sviluppo edilizio caotico delle altre città per due motivi: il piano regolatore approvato all’epoca di Gaetano Avigliano e l’opposizione del Pci e del Psi. «La città - dice - è stata salvata da quel piano regolatore, non da Abbro, che se avesse potuto avrebbe fatto tutte le deroghe possibili. A un certo punto aveva avuto addirittura la brillante idea di creare un grattacielo in piazza Roma, dove c’è il cinema Alambra».


Mario Avagliano

Pubblicato come inserto nel numero 3 - marzo 2000 di Panorama Tirreno (visualizza l’inserto)
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