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editoriale
Il volto violento della città
Enrico Passaro
Chi è cresciuto e vissuto a Cava fino a circa un decennio fa non può fare a meno di riscontrare che è un clima diverso quello che si respira adesso in città. È un clima preoccupante, molto preoccupante, perché mostra una tendenza inesorabile a peggiorare nel tempo. Per molti di noi l’immagine di Cava, come città sicura e tranquilla, in qualche modo “diversa” rispetto alla realtà circostante, è diventata, purtroppo, solo un malinconico ricordo. La cronaca quotidiana ci “rallegra” sempre più di frequente con descrizioni di fatti criminosi. Non vogliamo creare inutile allarmismo, non è nelle nostre corde: avremmo potuto intitolare questo editoriale “L’escalation della criminalità a Cava”, ma non ci piace utilizzare lo stile della notizia gridata attraverso titoli estremi. Diciamo che qui non è più l’isola di tranquillità di un tempo, che il tirar tardi nella notte sotto i portici non garantisce più la totale incolumità, che la spregiudicata sensazione di libertà di pensiero e di azione di una comunità che non si sentiva condizionata dalle pressioni ambientali cui sono purtroppo abituati nel vicinato, sta lentamente ripiegando.
Notizie di attentati più o meno virulenti, di intimidazioni e minacce, di incendi dolosi e avvertimenti, di colpi d’arma da fuoco indirizzati senza parsimonia verso cose e persone, non possono continuare ad essere considerate semplicemente delle ragazzate, gesti irresponsabili di giovanotti un po’ troppo esuberanti. Temiamo che Cava stia cambiando e cambiando in peggio. E temiamo che in futuro non potrà che continuare a peggiorare.
Riflettiamo: le fonti primarie di occupazione e sviluppo della città stanno lentamente sparendo o attraversano crisi profonde. Chiude la manifattura tabacchi che tanto sfogo alla manodopera cittadina ha fornito per decenni; si è dissolto l’impero di Amabile che, oltre a fornire occupazione qualificata tra banca (Credito Commerciale Tirreno), assicurazione (Gruppo Tirrena) e industria turistica (Lloyds Baia Hotel), favoriva il circolo virtuoso del riciclo in investimenti locali dei risparmi (consistenti) raccolti presso la clientela; il commercio, un tempo settore trainante della città, è sempre più ripiegato su se stesso intento a piangere sulle sue disgrazie e a rimpiangere i bei tempi andati, continuando ad individuare nella chiusura del traffico in centro la causa di tutti i suoi mali e mai comprendendo quali altre strade percorrere per interpretare in maniera moderna ed avanzata il suo ruolo.
E intanto anche la genetica del commercio cittadino cambia e, per certi aspetti, si degrada. Si estinguono progressivamente gli esercizi storici, quelli delle famiglie tradizionalmente consolidate nella storia bottegaia cavese, e vengono sostituiti da anonime jeanserie e negozi di abbigliamento intimo (ma quante mutande, calze e cannottiere si vendono?) provenienti dall’hinterland partenopeo.
Insomma, Cava sempre meno autosufficiente e originale, sempre più colonia e dipendente.
A tutto ciò si aggiunge l’ormai compromessa immagine della città proiettata all’esterno dai suoi tifosi. In una situazione di crescente degrado, si finisce sempre più per attaccarsi in maniera ossessiva a poche espressioni simboliche di identità. La Cavese è una di queste. Per i colori biancoblu alcuni sono disposti a fare delle gradinate degli stadi dei veri e propri campi di battaglia. Finiscono regolarmente col cadere in puerili tranelli, come è accaduto miserevolmente a Taranto. Poi stanno a commiserarsi e a gridare alla congiura. È accaduto più volte in passato e più volte l’abbiamo pagata molto cara. Tutta la città ha pagato e tutta la città è stata costretta a vergognarsi. Che continuino ad accadere episodi di guerriglia come quelli del 17 ottobre scorso è diventato ormai insopportabile. Se 100/150 supertifosi, che partono con l’intenzione di sostenere la squadra in trasferta con le buone ma soprattutto con le cattive, sono incapaci di trattenere i loro più bassi istinti di fronte alle provocazioni (sebbene anch’esse abbiette) della tifoseria avversaria, è necessario che se ne stiano a casa. Questo deve essere ben chiaro alle forze dell’ordine, alla dirigenza e alla tifoseria civile. Cava perde e continuerà sempre a perdere ogni qualvolta accadono episodi di questo tipo. Perde sugli spalti, ma anche in campo e nelle casse societarie, perde nella considerazione degli organi federali e perde in maniera inesorabile nell’opinione pubblica nazionale (anche se il tifo violento si annida dappertutto) perché tutti non chiedono che di scandalizzarsi per le inciviltà degli altri, per poter meglio camuffare le proprie.
Dovremmo ricordarlo e tenerlo bene a mente tutti, anche se chiedere ai cervelli bacati di certi supertifosi di capire tutto questo può essere un’opera impossibile. Eppure bisogna fare un grande sforzo, cominciando magari a ricostituire quel coordinamento del tifo cittadino che negli anni Ottanta tanti conflitti seppe attenuare e gestire in maniera più che civile, aggiungendo anche quel pizzico di ironia che consentì al pubblico allo stadio di reagire con beffardi applausi agli errori arbitrali e a quelle che sembravano (anche allora) palesi ingiustizie nei nostri confronti.
Fu, quello, un bellissimo esempio che i sostenitori della Cavese seppero dare e che fu molto apprezzato dagli attenti osservatori del fenomeno tifoso. Anche con simili gesti si può riacquistare credito e considerazione e innescare meccanismi sociali di crescita.
Già, ma quelli erano altri tempi!

Panorama Tirreno, novembre 2004