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I conti con i partiti
Enrico Passaro
Fra le massime aspirazioni dell’uomo c’è quella di poter agire liberamente dai mille condizionamenti della società. È un’ambizione il più delle volte frustrata e rimandata a circostanze migliori. “Verrà il momento - si dice - in cui potrò fare ciò che ho in mente senza dar conto a nessuno”. Gli anni passano, da giovani idealisti e, forse, ribelli si diventa adulti e per quella tal cosa che si ha in mente c’è sempre o quasi sempre un limite imposto dalle circostanze. Si ha voglia di diventare professionisti, dirigenti, manager, parlamentari, le decisioni, quelle finali, non dipendono mai esclusivamente da noi e, spesso, non sono quelle che vorremmo veramente.
Talvolta si diventa sindaci (ma vale lo stesso anche per un Presidente del Consiglio) e le cose possono andare ancora peggio.
Eppure, in campagna elettorale tutto si basa sulla personalità del candidato e sul suo programma: “Se sarò eletto farò questo e quest’altro, vedrete che società che vi ricostruisco”. I partiti quasi scompaiono dietro la costruzione di piccoli culti della personalità e sembrano completamente proni al volere del futuro primo cittadino (o capo del governo). Poi si viene eletti e, fin dal giorno dopo, intorno la musica cambia: cominciano i distinguo, le puntualizzazione, le prese di posizione, i problemi di coscienza, che si traducono in mozioni, verifiche di maggioranza, dichiarazioni alla stampa, giochi di corrente, trame trasversali, ricatti e così via.
“È la democrazia, bambola!”, si potrebbe dire in stile hollywoodiano. La si può chiamare dialettica, sinergia, “riscontro di tutti i problemi sul tappeto”, ricerca di visibilità, “giochi di potere”, “assalto alle poltrone”; ma l’autorità e il decisionismo osannati in campagna elettorale nel futuro sindaco (o premier) vengono fatti a pezzettini nel volgere di poche settimane. Ed è allora che devono venir fuori le vere capacità necessarie ad un sindaco per amministrare o a un Presidente per governare: carisma, pazienza, perseveranza, abilità di mediazione, chiarezza d’intenti, umiltà e un pizzico di astuzia.
Risezioniamo alla luce di queste caratteristiche la personalità del sindaco di Cava (o, se vi diverte, del Presidente del Consiglio) e, forse, avremo la chiave per comprendere quale sarà il futuro della città (o del Paese).
Luigi Gravagnuolo ha conquistato il Comune sulla base di una campagna elettorale lunga e di forte impatto comunicazionale, con un’ampia maggioranza di voti espressa dagli elettori; ha goduto e gode di stima e considerazione delle sue capacità di amministratore, probabilmente diffuse, anche se non dichiarate, anche tra i banchi dell’opposizione; ha iniziato a lavorare di gran lena, dando la sensazione di riuscire ad aggredire tempestivamente i problemi più immediati ed avviarli a soluzione; ma subito ha dovuto fare i conti con le logiche dei partiti che lo sostengono. Da qui le querelle su lista degli assessori e prime nomine.
Abbiamo già azzardato la nostra previsione su Gravagnuolo sindaco all’indomani del voto. Riteniamo che potrà essere un buon primo cittadino. E non tanto per quello che ha detto o fatto in campagna elettorale quanto per il potenziale intrinseco che il suo background e il suo agire attuale stanno palesando. Certo, poi si possono avere grande esperienza amministrativa e capacità di gestire i momenti di crisi (come si può aver governato l’Europa portandola da 12 a 25 Stati membri) e inciampare miseramente nell’impuntatura dell’esponente dell’Udeur o di Rifondazione di turno.
Il Comune come metafora del Governo? Speriamo di no! O forse di sì? …“È la democrazia, bambola!”

Panorama Tirreno, settembre 2006