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I FATTI … visti da Mezzogiorno
Questione meridionale? Proviamo con una “lobby del Sud”
Rosario Iannuzzi
Ha senso oggi, nel 2005, parlare ancora di Questione Meridionale? Certamente fa strano farlo, se consideriamo che sono praticamente centocinquant’anni che esiste questa espressione e che, tra alti e bassi, tra momenti di maggiore o minor fulgore, rappresenta uno dei temi più scottanti con cui i governi dell’Italia monarchica e repubblicana si sono dovuti confrontare dacché esiste, appunto, la nostra Nazione come soggetto statale unitario.
La cosa che più colpisce è che, per quanti sforzi siano stati fatti e per quante risorse siano state impiegate (perché di risorse ne sono state ben impiegate, e tante), i risultati non sono stati pari alle attese, anzi. Certo, non possiamo negare che molto sia stato fatto e che oggi esistono vaste zone che, affrancatesi dalla “scomoda” e poco lusinghiera appartenenza al Mezzogiorno, fanno ormai parte del “resto del Paese”, quello che per sviluppo economico e sociale è decisamente assimilabile al resto dell’Europa progredita. Come l’Abruzzo, ad esempio. Ma il resto del Sud, a che punto è? Se lo sono chiesto poco prima di Natale i membri dell’Associazione Mezzogiorno Europa, che hanno organizzato un incontro a cui hanno invitato imprenditori, politici e studiosi a confrontarsi sul tema. Il titolo scelto era: “Riflessione sul futuro del Mezzogiorno”.
A conclusione degli interventi, c’è stato anche quello di Massimo D’Alema, ex presidente del consiglio nella passata legislatura. L’europarlamentare diessino, con la franchezza che lo contraddistingue, non ha esitato ad affrontare criticamente l’argomento e, pur non risparmiando pesanti apprezzamenti sull’assoluta inerzia dell’attuale governo rispetto alle politiche meridionaliste, ha ripercorso la sua esperienza a capo dell’esecutivo riconoscendo che forse si sarebbe potuto fare di più, non tanto da un punto di vista della quantità, ma della qualità. D’Alema ha infatti ricordato che negli anni Novanta sono stati addirittura spesi più soldi per il Sud di quanti ne siano stati spesi durante trent’anni di vituperata Cassa per il Mezzogiorno. Una cifra enorme che, stando alle statistiche, non ha prodotto grandi variazioni in termini di capacità del Mezzogiorno come sistema, di far crescere il proprio Pil, di produrre cioè ricchezza. Sembrerebbe però aumentata la capacità di spesa dei meridionali, il che starebbe ad evidenziare come il trasferimento di risorse finanziarie non abbia influenzato positivamente il Mezzogiorno in quanto sistema produttivo ma abbia invece avuto un impatto sui singoli, migliorando (sterilmente) il loro reddito e migliorandone conseguentemente la capacità di spesa. D’Alema ha poi ammesso che forse anche le politiche “federaliste” adottate dai governi di Centro sinistra avrebbero potuto essere coordinate meglio e che la parcellizzazione dei centri decisionali conseguitane non è stata probabilmente la migliore scelta possibile per il Sud del Paese.
Che fare, allora, per uscirne? L’autorevole esponente della sinistra riformista indica anzitutto una strada da seguire, quella di costituire una sorta di “lobby del Sud”. Ha usato proprio quest’espressione, mettendo in guardia l’uditorio sul fatto che sì, il Mezzogiorno è considerato una priorità nel Centro sinistra e che sicuramente alla base del programma di azione di un ipotetico governo di questo colore politico ci sarebbe anzitutto lo sviluppo di quest’area del Paese. Tuttavia per D’Alema è importante “farsi sentire” come politici meridionali. Pensiamo abbia ragione da vendere e pensiamo che le prime cose su cui una ipotetica “lobby del Sud” dovrebbe (o avrebbe dovuto?) dare battaglia, riguardino le questioni Banco di Napoli, Società pel Risanamento di Napoli e, naturalmente, Decreto Legislativo 56/2000 sui trasferimenti statali alle regioni. Tre vicende sulle quali Massimo D’Alema, da presidente del consiglio, ha avuto voce in capitolo e che, al di là della sua buona fede di ieri e di oggi, certamente non hanno giovato al Mezzogiorno.

Panorama Tirreno, febbraio 2005
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