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Quando a Cava c’era il teatro
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Valerio Canonico ricorda quando nel 1833 Cava ebbe uno spazio teatrale stabile e funzionale
Tante compagnie si alternarono fino al 1860, poi per quindici anni la città fu privata degli spettacoli perché il nuovo consiglio cittadino, all’indomani dell’Unità d’Italia, aveva bisogno di maggior spazio. E si pensò di costruire il “Verdi”…




Valerio Canonico
Spettacoli teatrali (1833 - 1860)
Il proposito di dedicare una noterella storica al Teatro Municipale G. Verdi ha indirizzato le mie ricerche di archivio al passato teatrale di questa città.
E' stata una piacevole scorribanda, non priva di scoperte e di sorprese, con un materiale ghiotto ed interessante.
Da esso apprendiamo essere stata intensa la passione dei nostri cittadini per l'arte drammatica: indice questa di maturità e di evoluto gusto artistico. Farne argomento della noterella odierna, rimandando ad un prossimo numero quella sul Teatro Verdi, risponde all'indirizzo di questo giornale che ha come programma la divulgazione del costume e degli spiriti del nostro passato.
Essendoci stati qui in ogni tempo spettacoli teatrali, per ovvie ragioni, non comincerò ab ovo ma da quando, nel 1833, Cava ebbe un teatro stabile e funzionale.
Fu in quell'anno che il primo eletto Matteo Ioele, d'accordo col decurionato, diede l'incarico a Filippo d'Ursi di ricostruire il teatro di fortuna che a quando a quando veniva allestito nella sala grande delle udienze della Casa Comunale. I D'Ursi sono stati quasi tutti notai, invece l'omonimo del nostro direttore, ci viene, presentato nella qualità di perito. Di lui ci sono giunti gli originali di due progetti: col primo fu costruito in legno e in muratura il palcoscenico con l'arco di 14 palmi e la larghezza di 15 palmi; coll'altro nel 1834 furono portati a termine i camerini per gli attori e tutti gli annessi e connessi per diversi spettacoli.
I lavori furono eseguiti ad economia e sotto la sorveglianza dei deputati alle opere pubbliche D. Fulgenzio Orilia e il Marchese Andrea Genoino, che poi diverrà Sindaco di Cava per due trienni.
La spesa di 118 ducati fu approvata regolarmente dall'intendente del Principato Citra.
Scene ricchissime
Questo teatro costò al decurionato fior di ducati perché diventasse sufficiente ad ogni genere di spettacolo, come lo provano gli elenchi dell'abbondante materiale preso in consegna dai capocomici e le molte fatture che il diligente archivista ha conservate per la nostra curiosità. Ricchissima era la dotazione delle scene: ben 24 quinte nei primi anni erano a disposizione dei comici: molte altre furono preparate a mano a mano che venivano richieste. Né si badò a spese quando nel 1840 furono decorati i muri e il cielo della sala e si dotò il palcoscenico di un nuovo sipario. Lo scenografo e pittore Luigi Palliotta diede forme e colori alle allegorie che la barocca fantasia dell'ingegnere Luca Catone commise con questo ordinativo. Il sipario esprimerà un gran quadro esprimendo la gran veduta di Cava con tempio laterale, al di sotto del tempio statue del genio borbonico che accoglie l'amplesso della città di Cava sostenuta da tre punti indicando le tre Grazie e coroneranno il tempio i simboli della provincia.
Inaugurò il Teatro, il 14 settembre 1834, la compagnia Tozzi di Pisa, la quale diede trenta recite. Alla fine di queste il Tozzi scrisse una letterina al decurionato per ottenere una gratificazione che fu concessa, generosa e pronta e ammontò a cento ducati.
Petizioni come questa concludevano tutte le tournées e dobbiamo ad esse la possibilità di fare cenno alle varie compagnie che passarono per il nostro piccolo Teatro. Molte sono untuose e servili: erano compilate da guitti che non avendo accontentato la cittadinanza andavano via più affamati di come vi erano giunti, in altre invece il capocomico chiedeva con decorosa dignità e quasi in diritto, in nome della musa Talia e qualche volta di Melpomene delle quali si considerava sacerdote.
L’elenco degli abbonati
Fra le compagnie che raccolsero generali e spesso entusiastici consensi ricordiamo quella di Pietro Torelli che rimase fra noi tre mesi, quella di Labriola con trenta recite, di Giulio Grignani e di Carlo Camisana. Chi ebbe più fortuna fu il maestro Andrea Pini che tenne cartello con la sua compagnia lirica negli anni 1845-46 e 47. Un foglio fatto girare fra i gentiluomini cavesi per la raccolta degli abbonamenti diede esito insperato: ben 21 furono i firmatari non solo per sé ma anche per i familiari.
Da questo foglio che ci è pervenuto, perché su di esso fu scritta la domanda di rito per l'uso del Teatro, è compilato l'elenco che qui pubblichiamo, non per sfoggio di documentazione, ma per un omaggio a quei cavesi che con generosità ed intelligenza resero possibile tanta dovizia di attività teatrale.
Ecco i nomi degli abbonati: Marchese Genoino, Felice De Pisapia, Nicola Ioele, Domenico Salsano, Antonio Galise, Giuseppe Vitagliano, Fran. Sa. Del Forno, Bartolomeo Pagano, Giacinto Gagliardi, Gennaro Rossi, Pietro Formosa, Giuseppe Catone, Gaetano Lambiase, Pietro De Marinis, Domenico Luciano, Angelo Avigliano, Gaetano Campanile, Domenico Della Corte, Pasquale Mascolo, Alfonso di Mauro, Saverio Pisapia.
L'avere i firmatari acquistato due o tre biglietti di abbonamento, ci fa arguire che anche le signore accompagnavano i mariti agli spettacoli.
Un'altra testimonianza della frequenza del gentil sesso la deriviamo dalle innovazioni che a più riprese furono arrecate alla sala per renderla accogliente alle signore per le quali furono confezionate poltrone, cuscini e perfino due divani. Dovevano essere queste gentildonne poco schifiltose e molto amanti degli spettacoli se tolleravano per due o tre ore l'aria viziata da 24 maleodoranti lampioni ad olio distribuiti tra il proscenio e la sala!
Verso la chiusura
Si è parlato finora di spettatori gentiluomini e gentildonne. Sorge la domanda: il popolo partecipava a questi spettacoli? Certamente sì: non nelle proporzioni odierne, ma con pieno diritto. L'esistenza nella sala degli scanni e la capacità di questa lo confermano.
Le ultime recite ebbero luogo nell'aprile del 1860 con la compagnia Covitti e Lanfranco. Poi per quindici anni la città fu privata degli spettacoli teatrali, non perché le camicie rosse avessero distrutto la gioia del vivere, ma per la demolizione del Teatro decisa dal nuovo Consiglio Comunale nel 1861. In quegli anni di fervore di opere e di propositi bisognò dare più ampio respiro alla Casa Comunale che fu rinnovata affinché rispondesse ai nuovi bisogni.
Ma mentre i picconi dell'architetto Gelanzé di Napoli, che diresse i lavori, trasformavano il Teatro nella sala delle sedute e in ufficio, nelle menti e nei cuori dei consiglieri era già fissato il proposito di costruirne uno più bello e più grande, al quale misero mano appena furono risolti tre assillanti problemi: la scuola, le strade, le acque.
Dal «Pungolo»: 20 giugno 1964


Con queste parole il Primo Eletto avviò i lavori per la costruzione del ‘Municipale’
Era il mese di ottobre del 1860, quando fu progettato di edificare una sala per 620 spettatori, grande quasi quanto il San Ferdinando di Napoli e degno della città più popolosa e prospera della Provincia. Poi le cose andarono diversamente

Il Teatro G. Verdi - Nascita
Quando, nell'aprile del 1860, i Decurioni, con disappunto delle loro mogli e della cittadinanza, ordinarono la demolizione del vecchio teatro, ospitato fin dal 1833 nella Casa Comunale, avevano già in pectore il proposito di costruirne un altro funzionale e degno della città più popolosa e prospera della Provincia.
Infatti, il 20 ottobre, un mese dopo il Plebiscito, il Primo Eletto ne comunicava la decisione al Governatore della Provincia che denominavasi ancora Principato Citeriore con questa poco sintattica lettera:
In un paese civilizzato (sic!) come questo, manca un teatro tanto per allettamento ai propri abitanti che ai forestieri che vi concorrono, credetti mio divisamento di doversi edificare all'uopo, ne commetteva l'incarico all'Ing. Di Lorenzo Gelanzè ecc. ecc.
Ampio e funzionale
Fra compilazione del progetto, pentimenti, correzioni e remore burocratiche, trascorsero vari mesi finché i lavori furono concessi in appalto al Sig Andrea Maddaloni di Napoli con un contratto firmato il 28 luglio 1862 presso il Notaio Giovanni Della Monica.
Fra i vari obblighi, nei quali si articolava il documento, degni di rilievo per la cronaca questi:
«I lavori dovranno essere eseguiti in tre anni, con pagamenti annuali di Ducati 1.500, il resto dell'onere ammontante a Ducati 10.822,60, pari a Lire 45.994,90, alla consegna ».
«Il deposito di Ducati 500 sarà ritenuto a titolo di multa, qualora il lavoro non sarà eseguito nel modo e nel termine stabilito ».
Il Gelanzè, autore del progetto, era di casa nella nostra Città. A lui, infatti, aveva fatto capo il Comune nella sistemazione della Casa Comunale e nella trasformazione del Monastero di S. Giovanni.
La funzionalità e l'ampiezza del nuovo teatro fanno onore agli amministratori che ne erano stati gli ispiratori, per la mente aperta all'evoluzione sociale e demografica della nostra Città. Lo provano alcuni dati sicuri ricavati dal progetto e dalle controversie che vennero dopo.
La sala della platea aveva un diametro di metri 10, un metro meno di quello del Fiorentini, e 50 cm. del San Ferdinando di Napoli.
Poteva contenere 620 spettatori seduti, così distribuiti: 280 nella platea - 130 nei 36 palchi, 200 nella galleria e 10 in due palchi di platea.
I lavori, nei primi due anni, procedettero con lena e con soddisfazione dei tre consiglieri incaricati alla sorveglianza: Gaspare Manco, Simone Campanile e Pasquale Palumbo.
Soddisfatti e anche compiaciuti si mostravano i Cavesi, che spesso si attardavano nello spiazzo incolto, alle spalle del Duomo, ad ammirare il fabbricato imponente per quel tempo, il quale, a mano a mano che si rizzavano i muri, dilatava le speranze nei cuori. Le nostre Nonne e Bisnonne pregustavano più raffinate e mordenti emozioni con l'arrivo di compagnie drammatiche rinomate, i mariti, la gioia del bel canto e i vitaiuoli con la fantasia popolavano il capace palcoscenico di compiacenti e graziose coriste o ballerine.
In questo cielo sereno e carico di lusinghe, scoppiò improvvisamente il fulmine foriero di una tempesta dei cui effetti negativi risentì la vita mondana di questa città.
Vertenza con l’impresa
Un mattino, quando mancava solo la copertura del palcoscenico, non comparvero gli operai al lavoro e lo stesso avvenne nei giorni seguenti. Che cosa era successo? L'incauto appaltatore che aveva accettato la costruzione del teatro per l'ammontare di Ducati 10.822, accortosi che i conti non tornavano e che già aveva speso il doppio, aveva chiesto una misura di taglio.
Il Comune, forte del contratto, non solo rispose: perfice et repete, cioè: prima esegui i lavori, poi si penserà al taglio, ma incamerò il deposito di 500 Ducati per inadempienza.
Hinc ira et lites - Queste ebbero il loro epilogo nelle aule del Tribunale di Salerno e poi della Corte d'Appello di Napoli.
Ma se a Salerno la sentenza fu a noi favorevole, contraria fu quella della Corte di Appello che condannò la nostra Città a tutte le spese di giudizio e alla misura di taglio chiesta dal Maddaloni.
Eppure noi avevamo come patrocinatori tre eminenti avvocati: Gennaro Vitagliano, Francesco Orilia e Antonio Orilia, noto a Napoli per sapienza giuridica quanto il figlio Marcello lo fu per raffinata mondanità.
Per spiegare questa disparità di giudizi ho letto con attenzione le duecento pagine del fascicolo che contiene le varie fasi della controversia e dei processi, ed ho dovuto constatare che, se dal lato giuridico i cavesi avevano ragione, motivi umani e morali militavano a favore dell'appaltatore.
Queste considerazioni sopravvalutando, la Corte di Appello emise il pesante responso ai danni del nostro Comune.
Lo stesso Gelanzè, incaricato dai Giudici a fissare la misura di taglio, riconobbe che erano avvenute modifiche al progetto: quali l'allargamento della platea, l'approfondimento della fondazione, la giunta alla fabbrica della casa per gli artisti; per ciò portava la spesa fissata di Ducati 10.822 a Ducati 16.715.
Questa cifra fu accettata con un atto pubblico firmato dal Sindaco Trara, dal Maddaloni e dal Segretario Ioele il 26 maggio del 1867.
La emorragia di danaro circa 100.000 lire, scalfì senza irretirle le casse del Comune e non affievolì il fervore dei nostri Amministratori, inteso a trasformare Cava in una Città moderna, anche senza teatro.
Tuttavia, nella cittadinanza scese un velo di amarezza, che degenerò in rancore verso tutto ciò che avesse rapporto col teatro e quei cavesi che nel passato avevano trovato nelle manifestazioni sceniche il supremo godimento e vivo interesse, se ne tennero lontano per ben quindici anni senza reagire.
15 anni di abbandono
Ci furono, è vero, delle sporadiche proteste, ma venivano dai giovani che, incapaci di vivere il dramma dei loro genitori, male si adattavano all'astinenza.
A questi provvide un tale Alfonso Della Corte, che costruì una baracca per eventuali spettacoli, che dovette ospitare qualche compagnia di guitti girovaghi o canterine da strapazzo.
In questi anni il fabbricato, abbandonato alla ingiuria degli uomini e delle intemperie, divenne spettrale come lo scheletro di un animale antidiluviano, che adugiava di giorno la bella, ampia e ariosa villa comunale e di notte era motivo di angoscia. A maggiore vilipendio fu fittato come deposito di legname a R. Avagliano e due vani furono ceduti a venditori di frutta: Matteo Virno e Antonio Alfieri.
Tre architetti: Leopoldo Vaccaro, Orazio Dentice e Pietro Pulli profferirono la loro opera per il riordinamento e la ricostruzione del teatro, ma i loro progetti non furono presi in considerazione.
Più fortunato fu l'Architetto Fausto Niccolini di Napoli, cui nel 1874 il Sind. Marchese Atenolfi non solo affidò l'incarico del progetto, ma gli concesse l'onore di partecipare all'adunanza del Consiglio Comunale del 27 maggio 1875 quando questi fu chiamato a discutere i due progetti presentati.
La cronaca di questa seduta, che fu aspra e polemica, inizierà la seconda puntata.
Dal «Pungolo»: 5 marzo 1966


Per le ‘manie di grandezza’ dei cavesi il “Municipale” fu pronto solo nel 1878
Era un vero gioiello di perfezione e di arte in un edificio di perfetta armonia e la sala decorata con toni così tenui e delicati da farla somigliare al Trianon in miniatura

Il Teatro G. Verdi - Grandezza
Fausto Niccolini era figlio dell'architetto Antonio, che ricostruì il teatro S. Carlo di Napoli, distrutto da un incendio nel 1816, e creò le delizie della Villa Floridiana.
Se il Nostro non godette la fama del padre, era, al tempo della nostra cronaca, il più quotato architetto di Napoli.
Con questa referenza il Marchese Atenolfi, nella preannunziata seduta del 27 maggio 1875, gli diede la parola perché esponesse i progetti per il riordinamento e la ricostruzione del teatro comunale. I progetti erano due, contrassegnati con le lettere A e B.
Dai dati raccolti nella relazione ufficiale, risulta che il primo si articolava in queste innovazioni: ricostruire il teatro con dimensioni raccorciate di un terzo, ampliare il vestibolo dando maggiore ampiezza alla sala superiore da destinarsi a foyer, capacità 450 spettatori. Il progetto B era più complesso e non difettava di fantasia. L'intero teatro doveva occupare lo spazio destinato alla scena, allora non ancora coperto, lasciando libera l'area coperta per adattarla a una casina di due piani.
Scambio di battute fra Atenolfi e Trara Genoino
Ingresso al teatro dal lato orientale, palcoscenico apribile sulla villa per gli spettacoli estivi all'aperto. Capacità 360 spettatori.
Ad un consigliere, che segnalava la pochezza dei posti, l'architetto fece osservare: a Napoli gli 11 teatri non possono contenere più di 9500 spettatori, cioè l'1 e 1/2 per cento della popolazione: 350 posti sono, perciò sufficienti per Cava che conta poco più di 20.000 abitanti.
Considerazione, questa, inspiegabile di un uomo dotato d'ingegno e di fantasia, il quale non teneva conto del progresso di una città già allora in pieno sviluppo.
Durante il dibattito ci fu uno scontro vivace fra i due più importanti protagonisti della vita cavese nei primi 40 anni dell'Unità Nazionale: il Sindaco Pasquale Atenolfi e il Consigliere Giuseppe Trara Genoino. Solidali nella cospirazione e nella felice preparazione del plebiscito, li divisero non dissensi politici, ma una diversa concezione e metodo nell'amministrare la cosa pubblica, prudente e oculato il primo, audace e, spesso, spericolato l'altro.
Trara, dopo aver pateticamente lamentato l'abitudine a disfare quanto era stato creato durante l'amministrazione da lui presieduta, si disse contrario ai due progetti, come non rispondenti ai bisogni del paese. Quanto alla costruzione della casina temeva che si offendesse la maggior parte dei Cavesi ai quali era inibito l'accesso.
His rebus stantibus, proponeva che si costruisse il teatro secondo il progetto Gelanzè; che, se le esigenze nuove, sorte per la istituzione del Ginnasio e della Scuola Tecnica, non lo permettevano, che almeno si desse l'incarico al Niccolini di redigere un nuovo progetto più aderente ai bisogni della città.
Al Trara e ad altri dissidenti rispose l'Atenolfi. Il Marchese non era un forbito oratore, ma parlava alla buona e con una franchezza, spesso venata da felice umorismo.
Propose l'accettazione del progetto B; e per quel che riguardava gli scrupoli del Trara, lo assicurava che la casina non avrebbe offeso il popolo, ma avrebbe dato una nuova attrattiva alla città e un non indifferente cespite. Evidentemente egli pensava ad una futura sede del Circolo Sociale, che proprio in quell'anno iniziava la sua prestigiosa esistenza. Rifece la storia del teatro confessando essere stata colpa di tutti l'averlo varato con proporzioni e spese superiori alle proprie possibilità.
Erano quelli tempi di euforia, sono sue parole, nei quali la mania di grandezza prese un po' tutti, procurando, con questo benedetto teatro a noi triboli e alle casse del Comune inutili dispendi.
Finiamola con questa mania di grandezza, smettiamola con la velleità del passo più lungo della gamba, che ci ha resi ridicoli e oggetto di sberleffi.
Questo amaro sfogo ha bisogno di una chiosa. Ai Salernitani, che, beati loro, avevano fatto le cose con calma e prudenza, e nel 1872 col Rigoletto avevano inaugurato il loro bello e grande teatro, non parve vero, vedendoci nelle peste, ritornare nella vecchia solfa. Sempre gli stessi, questi mercanti arricchiti, andavano ripetendo, con le loro manie di grandezza; bene meritate sono le loro disavventure!
Quella mattina, forse per la prima volta, furono inascoltate le parole più eloquenti del solito del Marchese dai consiglieri, i quali approvarono l'ordine del giorno di Trara incaricando l'architetto a presentare, entrò tre mesi, un nuovo progetto più aderente ai desiderata del Consiglio. Questo fu pronto il 26 ottobre con un preventivo di L. 52.956.
Grosso modo era una variazione del progetto A, eppure fu approvato ad unanimità. E' ovvio che gravi motivi piegarono i riottosi consiglieri; principale la pressione della pubblica opinione e le esigenze della villeggiatura già allora fiorente.
La decisione fu salutata con gioia dalla cittadinanza e con sollievo dagli amministratori, come lo prova la larga pubblicità che si diede al bando.
Infatti, sulla Gazzetta Ufficiale del 1° Gennaio 1876 e poi sul « Pungolo » di Napoli e sul «Corriere di Salerno», fu pubblicato il seguente avviso: «Si rende noto al pubblico che la mattina del 26 febbraio, in Cava dei Tirreni, avrà luogo l'esperimento per l'incanto per l'appalto delle opere e forniture per il riordinamento e il completamento del teatro municipale, per l'ammontare di L. 51.488.
Nel 1901 fu intitolato a Giuseppe Verdi
I lavori furono affidati al pittore e costruttore Ermenegildo Caputo con contratto di appalto firmato dinanzi al nuovo Sindaco Trara e al Notaio Della Monica.
Ma, poiché, non solo libelli habent fata, ma anche tutte le cose di questo mondo, un nuovo infortunio fu causa di ansie e di inquietudine. Dopo tre mesi dall'inizio dei lavori, il costruttore, per motivi superiori alla sua volontà, si dovette rivolgere ai parenti Fortunato D'Agostino e figli perché continuassero la fabbrica.
Ci fu un po' di ristagno, poi le parti si accordarono, e il 17 gennaio 1877, presso lo studio dello stesso Notaio, fu redatto il nuovo appalto.
Questa volta, però, cademmo, come diceva Agnese, in piedi. Ci eravamo imbattuti in una impresa coscienziosa e di provate capacità tecniche.
Infatti, un anno e mezzo dopo, il 2 ottobre 1878, ci consegnarono l'edificio del teatro: un vero gioiello di perfezione e di arte.
Dei tre D'Agostino, chi vi impresse l'orma del suo estro, fu l'Ing. Gaetano. Il quale, essendo anche un finissimo pittore, diede perfetta armonia all'edificio e la sala decorò con toni così tenui e delicati da farla somigliare al Trianon in miniatura.
Alla decorazione concorse il pittore Ermenegildo Caputo, primo assuntore dei lavori, la cui genialità è affermata anche da un morbido pastello, che è in mio possesso, col ritratto del nonno del quale il Caputo fu ospite durante i lavori.
Dipinti da Gaetano D'Agostino furono anche: il telone, il soffitto con l'apoteosi delle arti, e, sull'arcoscenio, lo stemma del Comune sormontato da una corona turrita sorretta ai lati da due figure allegoriche.
Quale rinomanza acquistasse subito il nostro teatro lo testimonia una lettera dell'arch. Pulli di Napoli, che prega la Giunta di Cava di mostrare il teatro ad una commissione inviata dal Comune di Lecce per costruirne uno eguale.
La denominazione di Teatro Municipale che splendette sul frontone nel giorno dell'inaugurazione, avvenuta nel 1879, fu mutata in Teatro Verdi alla morte del grande musicista, nel 1901.
Primo sopraintendente il Consigliere D. Raffaele Ferrari, uno dei fondatori e primo Presidente del Circolo Sociale, già fin d'allora Deus ex machina, della vita mondana cavese.
Vana fu la proposta del Cons. Barone Vitale perché venisse dotato il teatro di una cospicua somma. Ragionava così: il teatro di Salerno, per mancanza di mezzi, è quasi sempre chiuso; evitiamo che lo stesso avvenga a Cava, dopo che si è tribolato e speso tanto.
Il pessimismo del Barone era infondato, come proverò nella successiva puntata.
Dal «Pungolo»: 2 aprile 1966


Inesorabile decadenza del “Verdi” nel primo dopoguerra
Rischiò di diventare bivacco degli squadristi e finì come sala cinematografica. Saggio e logico sarebbe stato serbare la sala per conferenze, concerti e per compagnie filodrammatiche, che ebbero da noi sempre vita rigogliosa. Purtroppo, la logica e la saggezza non sempre assistono i pubblici consessi…

Il Teatro G. Verdi - Decadenza
Non è superfluo, specialmente per i lettori giovani, conoscere alcuni elementi funzionali del Teatro Verdi.
Palcoscenico lungo m. 16 e largo m. 16,80, con pavimento di legno fornito di perfette attrezzature per la manovra della scena. Ai lati quattro camerini per gli attori.
La platea lungh. m. 10,50 e largh. m. 12,50, aveva sette file di sedie e due di poltrone, con due porte di uscita.
Dal secondo ripiano del vestibolo si saliva, mediante due scale di marmo, al piano dei 13 palchi. Una scala a chiocciola conduceva al loggione capace di 100 posti a sedere. Nel proscenio: 6 palchi: 3 per ciascun lato. Pochini i posti a sedere, ma sufficienti per i bisogni della nostra città e validi per costituirne una delle principali attrattive che resero Cava la più brillante e frequentata stazione climatica del Napoletano.
In quegli anni 1879- 1915, che ci appaiono quasi favolosi, le fortune del nostro Teatro furono così felici da pareggiare, in dimensioni, le fortunose vicende che ne accompagnarono la gestazione e la nascita.
Cuore pulsante della città
Giacché il « Verdi » non fu solo il tempio di Talia, di Euterpe, e qualche volta di Melpomene, ma anche il cuore pulsante della Città, dove i Cavesi si raccoglievano per commemorare un illustre scomparso o per festeggiare lieti avvenimenti e cittadini, come quando il Circolo Dio e Patria, il 12 febbraio 1912, con una festa di beneficenza, ricevette come socio onorario il Ten. Errico Papa, ferito a Bengasi.
La mia cronaca cessa di essere completa e particolareggiata, come dal 1861 al 1879, per mancanza dei documenti contenuti in vari fascicoli, introvabili, per ora, in quel caravanserraglio, nel quale due imprevidenti traslochi hanno trasformato l'Archivio Municipale.
Tuttavia, le decisioni della Giunta, che a volta a volta concedeva le licenze, mi offrono la testimonianza per affermare che il a Verdi » aprì i battenti nel 1879 con una carrellata di 60 recite, che la Compagnia di Varietà, di Cesare Spelta, diede nei mesi di ottobre, novembre e dicembre. Dalla stessa fonte si apprende che il Teatro, ogni anno, era aperto non meno di 150 volte. E non solo per rappresentazioni sceniche, ma anche per manifestazioni culturali, sociali e politiche.
Tra le conferenze, degne di rilievo, ricordo quelle di Enrico De Marinis su Emilio Zola, 4 gennaio 1903, dell'on.le Verazzani sul socialismo 26 dicembre l903, del prof. Battelli sul viaggio intorno al mondo - maggio 1912 e un interessante ciclo, promosso dalla Dante Alighieri, del quale furono oratori Ettore De Bonis, Amedeo Palumbo, Alfonso Molina, Eugenio Moretti e la Rotonda.
Ma due fascicoli, per fortuna rintracciati, ci danno una nozione capillare della intensa vita del «Verdi ».
Scelgo 5 mesi dell'anno 1895 et ab uno disce omnes.
Marzo - La Compagnia dialettale Gaioni dà 5 rappresentazioni: Mettiteve e fa ll'ammore cu mmè. 'A nutriccia. Tre pecore viziose. Prestami 'a mugliera, S. Lucia.
Altre cinque, la Compagnia drammatica Duse: I disonesti - L'erede Casa di Bambole, Battaglia di farfalle e Casa Paterna di Sudermann.
Aprile: Sono esibiti: Spassateve dopo muorte, Le disgrazie di Paolo Carola e lo spettacolo di un illusionista.
Maggio. La Compagnia di Anita D'Agostino dà: Boccaccio, Mascotte, Madame Angott, Orfeo all'inferno.
Giugno: prof. Marenco con 3 spettacoli di canto - scherma - musica.
Agosto - Compagnia Pantalena: Ritorno dalla Cina, A scaricabarile, 'A bomboniera, Vavone.
In settembre il « Verdi » diveniva tabù per la Compagnia Filodrammatica formata da Cavesi e Villeggianti, diretta per qualche anno dal marchese Carlo Genoino e, in seguito, dal conte Vittorio Capasso. L'introito alimentava la cassa istituita per la cucina economica che funzionava d'inverno.
I prezzi degli spettacoli, dati dalle Compagnie di passaggio, calmierati dalla Giunta, erano i seguenti: palchi da 8 a 10 lire - Poltrone lire 2 - Distinti L. 1,45 - Galleria (posti in piedi nella sala) L. 0,10 - Loggione L. 0,30
Qualche ritocco di maggiorazione veniva dato negli spettacoli di opere liriche.
Il Comune concedeva, oltre la luce, anche un sussidio di L. 50 per sera, aumentabili secondo la qualità degli attori e delle opere.
Primi segni di degrado
I primi segni della decadenza si ebbero nel 1912 quando fu concessa ai fratelli Ferdinando ed Errico Salsano la facoltà di proiettare due films celebri - Quo Vadis? e gli Ultimi giorni di Pompei.
Invano gridò alla profanazione D. Cesare Orilia, uno degli ultimi consiglieri della vecchia guardia. Non fu ascoltato dagli Homines Novi del Consiglio, che non avevano vissuto il dramma del nostro teatro.
Dopo venne la stasi degli anni di guerra.
Nel 1920 le luci della ribalta si riaccesero con Mascotte - Le Campane di Corneville - Madame Angot - Gran Via - Boccaccio. Ne fu impresario D. Vincenzo Coppola. Anche ad altri va data la benemerenza per avere, per vari anni, tenuto ad un livello dignitoso il Verdi: De Vivo, 1921, Montella 1922 - Emilio Di Mauro 1923, Luigi Scermino, Volpe, Guariglia ed altri.
Poi le cose andarono a rotta di collo: al «Verdi» per i vari anni toccò la sorte dello stivale di Giuseppe Giusti, e per poco non divenne bivacco degli squadristi, quando fu concesso al Fascio locale per esercitazioni. Ultima degradazione; il freddo lenzuolo del cinema muto al posto del pittoresco sipario.
Trasformato, anche con modifiche di struttura, in sala cinematografica, e dato in affitto col vilissimo canone di L. 10 per sera, il «Verdi» vivacchiò alcuni anni finché ne fu decisa la morte.
Una morte senza trasfigurazione.
L'insania degli Amministratori non può nemmeno spiegarsi con motivi di economia, essendo costata la rabberciatura e il lato orientale costruito l'anno scorso, molto più di quanto sarebbe occorso per una nuova casa del Comune, funzionale e aderente ai bisogni nuovi del paese.
Saggio e logico sarebbe stato serbare il «Verdi» per conferenze, concerti e per compagnie filodrammatiche, che ebbero da noi sempre vita rigogliosa; fittare la sala che è al di sopra del vestibolo per le spese di manutenzione.
Purtroppo, la logica e la saggezza non sempre assistono i pubblici consessi di questo mondo; e questa considerazione ci fa più indulgenti verso gli affossatori.
Dal «Pungolo»: 23 aprile 1966

Fine


Valerio Canonico - «Noterelle Cavesi» - 1967 Cava de’ Tirreni
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