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cultura & società
Manlio Santanelli e le “comunicazioni disturbate” nel suo teatro più europeo che partenopeo
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“Il rapporto con la tradizione non va mai interrotto, ma non si deve restarne prigionieri”
Maria Assunta Ruggiero
Ho incontrato Manlio Santanelli al Teatro dell’Angelo in occasione della prima romana de Il baciamano, uno dei suoi testi più interessanti, scritto in un intenso atto unico nel 1993. È la storia di una popolana e di un gentiluomo intellettuale giacobino, ambientata nella Napoli sanfedista successiva alla fallita rivoluzione del 1799. L’uomo, incaprettato, è destinato ad essere mangiato a pranzo da una famiglia di lazzari. Nel corso della commedia si stabilisce un rapporto fra il futuro “pasto” e la donna che dovrà cucinarlo, un sentimento insospettato di solidarietà. La donna, a contatto con un uomo totalmente diverso da quelli che conosce, scopre la sua condizione, capendo di essere lei stessa una vittima. Gli chiede di soddisfare un suo desiderio inappagato, quello di baciarle la mano come ha visto fare da un signore “lustro e alliccato” davanti a Palazzo Reale. Il gentiluomo eseguirà nel migliore dei modi provocando grande turbamento nella donna. Nonostante tutto, il destino crudele dell’uomo non potrà essere modificato. I due bravi interpreti di questo testo sono Sonia Seraponte e Fernando Siciliano; la regia è di Fabio Cocifoglia, le musiche di Antonio Perna.
Si parla con leggerezza e disinvoltura di cannibalismo, forse leggenda, forse fenomeno realmente manifestatosi nell’irragionevolezza e nella miseria di quegli anni. Ma per Santanelli il cannibalismo è un pretesto ricorrente per parlare dei conflitti umani.
È frequente nei Suoi testi il riferimento al cannibalismo, ora in chiave farsesca come ne L’isola di Sancho, ora in chiave psicanalitica come in Regina Madre, ora in chiave storica e sociologica come ne Il baciamano. Cosa costituisce per Lei la rappresentazione del pasto umano?
«Il cannibalismo a cui faccio spesso riferimento è un’esasperazione paradossale dell’istinto di sopraffare il proprio simile. Anche quando a lui ci lega un rapporto affettivo. L’amore tra uomo e donna assume più spesso di quanto non si pensi aspetti cannibalici. Senza contare che Melanie Klein interpreta l’oralità del poppante come un bisogno di mangiare la madre».
A proposito de L’isola di Sancho, Lei dichiarò una volta che c’è nel personaggio di Sancho la rappresentazione di  un certo tipo di plebeo meridionale costantemente alla ricerca di un riscatto economico e sociale praticamente impossibile da realizzare. Non c’è speranza di uscire da una condizione di vita ai margini della società, comune a parecchi napoletani?
«Se quella possibilità non c’era quando ho scritto “L’isola di Sancho” (1982, ndr), gli anni seguenti ne sono stati la migliore conferma. Oggi, purtroppo,  al plebeo napoletano l’unico riscatto, o quanto meno quello più semplice e immediato, lo offre la malavita organizzata».
Nel Pulcinella la Sua descrizione originale della vicenda della sirena Partenope da cui si originò Napoli, richiama tristemente la tragica attualità maleodorante e di immondizia della Napoli contemporanea. È una crudele condanna per questa città?
«Le condanne, da noi in Italia, purtroppo non sono mai definitive. Nel bene come nel male. Sta di fatto che l’emergenza rifiuti di questi giorni è il picco raggiunto da una febbre, dalla quale la città non è mai guarita. I visitatori stranieri dei secoli scorsi sapevano bene, prima di mettersi in viaggio, di dover portare con sé in valigia una buona quantità di profumi».
Non parliamo poi della singolare coincidenza della Prima di Uscita d’emergenza (7 novembre 1980), in cui si parla della precarietà di un territorio soggetto a movimenti sismici, che ha preceduto di pochi giorni il verificarsi del terremoto del 23 novembre 1980. C’è qualcosa di tragicamente premonitore nei Suoi testi …
«L’arte è sempre in qualche modo premonitrice. La fantasia si trova molto spesso più avanti della storia nella corsa verso la verità. Per quello che poi riguarda Napoli, non bisogna essere Nostradamus per ipotizzare che una città, edificata ai piedi di un vulcano che non ha mai smesso di essere attivo, un giorno o l’altro ne subirà le conseguenze».
È nota la Sua affinità con il “teatro dell’assurdo”. Lei crede nella incomunicabilità, alienazione e vacuità della vita umana?
«L’incomunicabilità è stata una moda sostenuta da una élite intellettuale in cerca di un alibi alla noia esistenziale. Oggi non parlerei di incomunicabilità, ma piuttosto di “comunicazioni disturbate”, di rapporti interpersonali viziati da riserve di fondo; riserve che ciascuno di noi nutre non soltanto verso l’altro ma anche – cosa alquanto più grave – nei confronti di se stesso».
L’incomunicabilità e l’esasperazione delle tensioni familiari nei suoi testi non si manifesta solo nei rapporti coniugali, ma anche fra genitori e figli o fra fratelli. Sembrerebbe che l’ “aberrazione” sia dovuta al progressivo degradarsi della convivenza. L’uomo è votato alla solitudine?
«Esatto. Ma l’uomo è, come dice Aristotile, un animale sociale, lo è inguaribilmente, e finisce per preferire di essere ‘male accompagnato’ piuttosto che solo. La solitudine richiede un eroismo che pochissimi sono in grado di esprimere».
Lei viene definito un autore con influenze europee più che napoletane. Definirebbe il suo teatro più mitteleuropeo o partenopeo e in che misura l’uno ha la prevalenza sull’altro?
«Per natura e per esperienza rifuggo dalle definizioni come da abiti preconfezionati, e dunque molto spesso approssimati per difetto o per eccesso. Quanto alla compresenza, nella mia teatrografia, di opere in lingua e di opere in napoletano, c’è di vero che io dispongo di due strumenti linguistici e di volta in volta, a seconda di quanto intendo rappresentare, scelgo l’uno o l’altro. Questa scelta è determinata anche dal fatto che il napoletano mi assicura una impagabile vivacità di toni nelle situazioni teatrali dirette, ma non mi consente di scandagliare l’animo umano con la stessa capacità di penetrazione dell’italiano».
Diceva Eduardo: “La tradizione non basta. Devi sapertene servire, con la fantasia, con l’osservazione, con la riflessione: diversamente, la Commedia dell’Arte avrebbe avuto il solo merito di divertirci, di farci ridere superficialmente (…) Senza la Commedia dell’Arte non ci sarebbe stato il mio teatro”. E il teatro di Manlio Santanelli?
«Il rapporto con la tradizione non va mai interrotto. La tradizione è uno sgabello sul quale salire per poter guardare più lontano. Ma è necessario viverla come un retroterra culturale, non restarne mai prigionieri. Occorre, in poche parole, aggiornarla, costruire sulle sue fondamenta un edificio che risponda in modo più esauriente alle mutate esigenze del tempo in cui si vive».

Panorama Tirreno, aprile 2008
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