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cultura & società
Per non dimenticare
Mai più trasformati in “scorze”
Diario-racconto sulle follie della guerra
Giovanni Rotolo
Nel primo pomeriggio dell’8 settembre 1943 giunse via radio la notizia dell’armistizio concluso dal generale Badoglio. L’Italia cessava le ostilità contro le grandi potenze (Inghilterra, Francia, Russia e Stati Uniti) e l’alleanza con l’esercito tedesco. L’annuncio fu accolto con grida di gioia. Ritenemmo che la guerra si fosse finalmente conclusa e alimentammo la speranza del rientro in patria a breve scadenza. Furono intanto sospese tutte le partenze dall’isola e fatti prigionieri i 7 militari tedeschi presenti nel presidio. Ebbi l’incarico di sorvegliare in qualità di capo posto il casolare di campagna, all’uopo munito dei prescritti requisiti contro le eventuali evasioni, dove furono racchiusi i prigionieri.
Nella tarda serata del 2 ottobre decodificammo un cifrato che comunicava il movimento nelle acque presso l’isola di un convoglio di navi inglesi. Verso le 4 del mattino seguente fummo svegliati dallo squillo d’allarme del trombettiere reggimentale. Come nelle precedenti esercitazioni di guerra, bene equipaggiate da combattimento, tutte le compagnie si inquadrarono immediatamente. Usciti dalla caserma ci dirigemmo verso la campagna. Fu verso l’albeggiare che scoprimmo di essere in stato di guerra vera e propria. La prima ondata di bombardieri tedeschi cominciò a sganciare bombe e a mitragliare. Dalla zona nord dell’isola era già avvenuto lo sbarco di reparti tedeschi che avevano guadagnato le alture collinari. Il convoglio navale che il messaggio cifrato comunicava di nazionalità inglese era invece tedesco.
Ebbi subito l’incarico di porta ordini per il collegamento della 6ª compagnia con l’osservatorio del comando italiano sistemato nel centro della zona del nostro schieramento. Dalle colline già si scorgevano ad occhio nudo le truppe germaniche che scendevano mitragliando a pieno ritmo. Per ben tre volte compii l’andirivieni tra la compagnia e l’osservatorio, cercando di proteggermi al riparo delle siepi e di cunicoli, ma quando vidi il reparto ormai decimato e sbaragliato e il suolo cosparso di morti e feriti mi rifugiai nel vicino cimitero di Coo, che già trovai gremito di altri commilitoni. In una spaziosa cappella sotterranea, che aveva l’aspetto di un’antica catacomba, passammo la notte rifugiati militari e civili, meditando sulla sorte che ci attendeva. I colpi di arma e le deflagrazioni si sentivano sempre più vicini; con ansia palpitante speravamo tutti di non essere centrati da qualche bomba che ci avrebbe ovviamente sepolti. Verso l’alba vedemmo irrompere dall’unica entrata della catacomba i primi soldati tedeschi che, minacciosi, con le armi spianate, ci ingiunsero di uscire completamente disarmati e con le mani sollevate il alto. Ebbe così inizio il penoso dramma della prigionia.
La prigionia
Sfiniti e depressi dall’insospettato sbarco, dalla subitanea occupazione tedesca e dall’avvilente sconfitta subita, seguimmo inquadrati alla men peggio gli ordini delle guardie tedesche impartitici con le incomprensibili frasi: “Raus, raus, sciais menc”. Fummo condotti in una vicina chiesa, dove ci sistemarono in una delle tre navate: in quella di sinistra entrando dovemmo prendere posto noi prigionieri italiani; in quella di destra sistemarono i pochi inglesi, che giorni prima erano stati paracadutati sull’isola, anch’essi fatti prigionieri. Verso mezzogiorno distribuirono a questi ultimi dei viveri a secco, che invece negarono a noi, da essi tedeschi considerati traditori; fummo rifocillati soltanto verso sera. Passammo la notte sdraiati sul pavimento della chiesa. La mattina dopo ci inquadrarono e condussero a piedi verso Antimachia, paese distante da Coo circa 20 Km.
Lungo la interminabile strada si presentò ai nostri occhi smarriti il desolante spettacolo che la battaglia del giorno precedente aveva provocato: mezzi blindati bruciati ancora fumanti e i campi disseminati di corpi senza vita. Tra questi riconoscemmo con orrore la salma insanguinata e mutilata del postino reggimentale a fianco della motocicletta Gilera, che usava per il servizio postale, colpita  e fracassata. Era stato un soldato sempre gioviale, molto attivo e visibilmente felice quando distribuiva ai commilitoni la posta in arrivo.
Trasferimento a Lero
Il 27 marzo 1944 ci imbarcarono alla volta dell’isola di Lero, dove giungemmo il giorno dopo. La città di Lero era stata bombardata più volte e la maggior parte dei palazzi risultava colpita e diroccata. Fummo utilizzati allo sgombro delle macerie dai fabbricati già occupati dalle truppe tedesche e alla formazione delle linee di difesa della città e dell’isola. Scavare profonde trincee era il nostro compito preminente. I tedeschi temevano una imminente occupazione da parte degli anglo-americani e le trincee ed altre postazioni si rendevano necessarie.
Eravamo stati alloggiati in una vecchia caserma, in parte colpita dai bombardamenti e venivamo alimentati con razioni giornaliere rigidamente ridotte, insufficienti alla nostra sopravvivenza. Le scorte alimentari nell’isola non potevano essere reintegrate, in quanto il mare Egeo era ormai costantemente percorso da sottomarini inglesi ed americani.
Una domenica fummo condotti a costruire trincee nei pressi di un ospedale. La natura del suolo era prevalentemente costituita da calcare compatto per rompere il quale i picconi emettevano scintille e i badili pesavano enormemente nell’atto di liberare lo scavo dalle schegge faticosamente prodotte. Nell’operazione di scasso lavoravamo a turni, onde permettere a ciascuno un po’ di stasi. Fu in occasione di un mio turno di riposo che, eludendo la sorveglianza delle guardie, infilai il vicino ingresso all’ospedale e mi presentai ad alcune suore, che vi prestavano servizio di infermiere, alle quali rivolsi la preghiera di volermi offrire qualcosa da mangiare. Il loro spirito di carità si rivelò immediato. In poco tempo mi venne premurosamente consegnata della ricotta (ovviamente avanzo di cucina) avvolta in un panno di garza. Ne divorai all’istante una certa quantità. Era acida, ma la considerai ugualmente gradita manna per lo stomaco mai soddisfatto. Con la rimanente mi affrettai a raggiungere il posto di lavoro. Vi trovai minaccioso il sergente maggiore tedesco che aveva notato la mia assenza. Borbottando le solite ignominiose frasi in tedesco, mi coprì di numerosi schiaffi e pedate da farmi cadere quasi tramortito a terra. Ripresi, comunque, il lavoro.
Al ritorno in caserma riferì l’accaduto all’ufficiale comandante, un maggiore tedesco che mi ingiunse di entrare, per punizione, in una cella di isolamento. Provai, così, per la prima volta la cella di rigore e proprio mentre ero prigioniero. Vi restai te giorni a pane e acqua.
Dulag 135
Quando le fortificazioni di difesa nell’isola di Lero furono ultimate, il 6 maggio 1944 ci imbarcarono per la Grecia. Vi giungemmo il giorno dopo. Nella traversata, alcune ore prima dell’arrivo, ci vedemmo avvolti da una densa nube protettiva. Erano fumogeni generati da una delle due cacciatorpediniere che ci scortavano. Eravamo in mare aperto e provammo la terribile sensazione di dover subire la stessa sorte toccata ad altri prigionieri in altre traversate simili. Si attendeva con l’animo sospeso che un momento o l’altro qualche siluro ci colasse a picco, senza alcuna speranza di salvezza. I tedeschi, infatti, avevano sospettato la presenza di aerosiluranti nemici nella zona. Nell’interno della nube protettiva rimanemmo per oltre due ore e, a scampato pericolo, riprendemmo il viaggio.
Giunti al Pireo, fummo destinati al Dulag 135 (campo di concentramento della località Kudy di Atene). Era una vasta pianura cinta da alto ferro spinato, che raccoglieva oltre 2.000 prigionieri italiani. Le piccole tende, appositamente allestite dai tedeschi, ospitavano ognuna quattro di noi. Vi si dormiva a terra sui pochi stracci che ci erano rimasti. Fummo però provvisti di zoccoli di legno in sostituzione delle scarpe ormai ridotte a brandelli. Accanto al campo di concentramento un maestoso palazzo ospitava le alte gerarchie tedesche e in diversi capannoni attigui alloggiavano delle truppe germaniche. Il complesso era il campo di smistamento delle truppe, presso il quale era costruito in muratura, alla guisa di un’ampia concimaia a cielo aperto, il contenitore dei rifiuti del campo stesso, rifiuti che venivano quotidianamente  distrutti col fuoco. Quando ci toccava la fortuna di essere prelevati per lavori in quei pressi, ci era consentito di raccattare, tra gli avanzi bruciacchiati, tozzi di pane di segale raffermati e generalmente coperti di muffe.
Un giorno, vinto dalla fame, riuscii a vendere ad un greco la mia giubba, ormai lacera, per 7 milioni di dracme e con 4 milioni e mezzo di queste acquistare da un altro greco una panella dalla quale mancava circa 1/8 di pane.
Partenza per destinazione ignota
Il 12 giugno, prelevati quasi tutti e caricati su lunghe tradotte militari, ci fecero partire per ignota destinazione. Ogni carro della tradotta, costipato di prigionieri, venne fornito di un sacco contenente diverse panelle e di un cospicuo numero di scatolette di carne, che ci presagirono un viaggio lungo. Era opinione comune che si partiva per la Germania a sostituire le forze di lavoro mancanti per il protrarsi imprevisto del conflitto.
La fabbrica dell’oro
Giunti a Belo Polje in Serbia, parte della lunga tradotta fu sganciata per rimanere in quella località Gli altri carri proseguirono in realtà per la Germania. Era il 17 giugno. Scesi dal treno, fummo condotti presso la fabbrica che trattava il materiale aurifero proveniente per teleferica dalle non lontane miniere. Parte di noi fu trattenuta e sistemata entro un recinto di ferro spinato nei pressi della fabbrica; gli altri furono invece condotti presso le miniere, in condizione di vita molto più disagiate delle nostre.
Ogni mattina, appena dopo la sveglia, venivamo riuniti a gruppi numerici di fronte all’ingresso del fabbricato. Sul pianerottolo si riunivano i gerarchi tedeschi della tremenda organizzazione TOD, per disporre la dislocazione dei prigionieri ai diversi lavori di difesa esterna della fabbrica. Al ciclo lavorativo interno non era ammessa la presenza dei prigionieri. Vi si estraeva un Kg. di oro al giorno.
Prima però che fossero definite le diverse dislocazioni, gli ufficiali si dilettavano a tirare a segno con la pistola sulla massa inquadrata di noi prigionieri; e quando le grida, le invocazioni e i lamenti dei prigionieri colpiti riempivano l’aria di strazianti risuoni, i tiratori si gloriavano di aver fatto centro con beffarde risate. Chiunque si fosse mosso a prestare soccorso ai malcapitati, sarebbe stato ugualmente passato per le armi. Nei circa 4 mesi di permanenza sul luogo, i caduti per il quotidiano dileggio dei tedeschi raggiunsero il numero di circa 200, sepolti in un campicello poco distante, senza alcun segno distintivo.
I prigionieri che erano stati destinati alle miniere lavoravano in profonde gallerie quasi sempre inondate da acqua. Quando poi la sera ritornavano nel loro campo per il sospirato riposo della notte, venivano additati ai cani poliziotto, che li aggredivano crudelmente. Era il divertimento sadico dei gerarchi tedeschi ivi addetti.
Colpito da poderosa febbre malarica, fui un giorno ricoverato in infermeria. Non vi trascorsi che un paio di giorni.
La liberazione
Alla fabbrica, che costituiva un allettante obiettivo, cominciarono improvvisamente a piovere le prima cannonate. Il cannoneggiamento durò ben 5 giorni, per fortuna senza arrecare danni o provocare vittime tra i prigionieri. La mattina del sesto giorno l’intera comunità della fabbrica si ritrovò senza i tedeschi. Erano fuggiti prima che giungessero le truppe liberatrici. Giunsero, infatti, numerosi partigiani serbi a fianco di truppe regolari bulgare militanti nell’esercito russo. Ero ancora in infermeria non guarito dalla malaria. I 500 tedeschi della zona erano fuggiti dalla fabbrica e dalle miniere, dopo avere bene occultato le proprie armi. Non lontano furono fatti prigionieri a loro volta dalle truppe russe, che promisero salva la vita a chiunque avesse contribuito a far rintracciare le armi da loro nascoste. Poi anche questi volenterosi furono passati per le armi come i loro camerati.
Tale liberazione avvenne il 15 ottobre del 1944.

Il racconto di Giovanni Rotolo prosegue descrivendo il trasferimento in Bulgaria, il soggiorno a Sofia, il rischio di un trasferimento in Siberia, la fuga, il lavoro in un’officina meccanica e, infine, il rimpatrio. Poté finalmente riabbracciare i propri familiari, che per molti mesi lo avevano creduto morto, il 28 marzo 1945.

Il testo è stato poi pubblicato dal Comune di Cava de’ Tirreni nel libro
periodico di attualità 
costume & sport
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